Roma – Tim, Ita, Ilva. Sono questi i principali dossier di politica industriale sul tavolo del governo. Tutti da chiudere entro la fine dell’anno. C’è una nuova data cerchiata di rosso nel calendario di Tim. È il 31 dicembre, giorno entro il quale il governo ipotizza di trovare le “migliori soluzioni” sul futuro della rete unica. Il ministero delle Imprese ha spiegato che l’esecutivo ha svolto in queste settimane “ampi e doverosi approfondimenti ed interlocuzioni con i principali soggetti coinvolti nello strategico dossier” a seguito dei quali, “tenendo conto delle priorità di valorizzare le risorse umane di Tim e dare attuazione a una efficiente e capillare Rete Nazionale a controllo pubblico”, intende “promuovere un tavolo di lavoro che entro il 31 dicembre possa contribuire alla definizione delle migliori soluzioni di mercato percorribili per massimizzare gli interessi del Paese, delle società coinvolte e dei loro azionisti e stakeholder, tenendo altresì conto delle normative esistenti a livello nazionale ed europeo e dei necessari equilibri economici, finanziari ed occupazionali”.
Prima consguenza: stop al memorandum of undestanding firmato con Cdp e con i fondi Macquaire e Kkr. Sembra destinato quindi a essere congelato, se non abbandonato del tutto, il progetto che prevede la separazione della rete di Tim e l’offerta della cordata guidata da Cdp per rilevarne una quota per poi integrarla con la rete della controllata Open Fiber. Il nuovo scenario che prende quota sarebbe quello che va sotto il nome di ‘Progetto Minerva’. Il piano elaborato da Alessio Butti, il sottosegretario a Palazzo Chigi per l’Innovazione tecnologica, prevede un’opa sul totale del capitale Tim con successivo break-up degli asset. Un percorso però giudicato lungo e complesso dagli investitori e che agita il mercato. Appena insediato il governo ha deciso di non prorogare la trattativa in esclusiva avviata con Certares (più Delta e Air France come partner commerciali) dal precedente esecutivo. Nel frattempo il presidente di Ita, Alfredo Altavilla, si è dimesso e al suo posto è arrivato Antonino Turicchi cui sono state assegnate, tra le altre, le deleghe sulle operazioni strategiche. Sarà dunque lui a gestire il processo di cessione. Msc, che correva insieme a Lufthansa, ha fatto sapere di “non essere più interessata alla privatizzazione” della società. I tedeschi invece si sono presentati all’apertura della data room e confermato la propria volontà di intervenire nella vendita.
Intanto si preannuncia calda l’assemblea di Acciaierie d’Italia, la società costituita da Am InvestCo Italy e Invitalia che ha rilevato l’ex Ilva, in programma oggi. Il governo chiede “un riequilibrio nella governance”. L’azienda è afflitta da una grave crisi di liquidità che l’ha spinta a metà novembre a sospendere attività e ordini di 145 imprese dell’indotto, di cui 43 a Taranto, con una ricaduta stimata di circa 2.000 lavoratori esterni. I sindacati spingono per la nazionalizzazione. Tra le ipotesi c’è quella di anticipare al 2023 l’incremento della partecipazione pubblica dal 32 al 60% previsto nel 2024. Soltanto a questa condizione verrebbero iniettati i 2 miliardi di euro complessivamente previsti dal Pnrr e dall’aumento di capitale inserito nel Dl Aiuti bis. Il ministro delle Imprese, Adolfo Urso, ha sottolineato che occorre “invertire subito il declino produttivo di Ilva” che oggi produce appena 3 milioni di tonnellate di acciaio a fronte dei 6 milioni concordati con l’obiettivo di tornare a 8 milioni.
Ma, in mezzo, c’è pure il Pnrr. La task force dei tecnici della Commissione europea sul Pnrr è già da qualche giorno a Roma, impegnata in una serie di incontri per fare il punto sullo stato di attuazione delle misure messe in agenda dall’Italia, ma tra le più alte cariche di governo si insiste unanimemente per una revisione di alcuni dettagli del Piano nazionale di ripresa e resilienza. “Gli Stati membri dovrebbero attuare il loro Pnrr approvato dal Consiglio. L’attuazione include milestones e obiettivi, secondo scadenze chiare” ha sottolineato due giorni fa la portavoce della Commissione Veerle Nuyts. Ma il ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti e vicepremier, Matteo Salvini ha voluto precisare che il Pnrr “continua a essere un qualcosa che va non cambiato, ma ritoccato, rivisto” alla luce di tutto ciò che sta succedendo. Secondo Salvini in particolare vanno rivisti i tempi, perché considerato che siamo oramai a fine 2022, “chiudere tutte le opere e rendicontarle entro il 2026 mi sembra assolutamente ambizioso”.
E al tempo stesso indica anche la necessità di un aggiornamento dei prezzi. La pensa così anche il ministro dell’Ambiente Gilberto Pichetto che pone il problema degli obiettivi del Pnrr a confronto con il forte balzo del carovita. “Dovremo rivedere il Pnrr con l’Europa”, perché “a causa dell’inflazione, solo il mio ministero dell’Ambiente per gli interventi ha un onere maggiore di 5 miliardi”, sui 35 previsti afferma Pichetto sottolineando che “o si taglia sulle opere, o non ci stiamo dentro”. Il ministro degli Affari Europei Raffaele Fitto intanto fa sapere che nei prossimi giorni verrà comunicata la reale situazione di spesa del Pnrr. All’inizio, ricorda, la previsione di spesa del piano nazionale di ripresa e resilienza era di 42 miliardi di euro alla fine di quest’anno, questa programmazione è stata rivista al ribasso a 33 miliardi e poi ridotta a settembre a 22 miliardi. “Nei prossimi giorni noi prenderemo atto di quanto si è speso” ma “temo che la percentuale di spesa non sarà molto alta e sarà distante dai 22 miliardi di euro. L’indicatore della spesa è molto preoccupante, perché se mettiamo insieme tutte le risorse disponibili e le proiettiamo al 2026 è chiaro che c’è bisogno di un confronto a livello europeo e nazionale”.
“Il Pnrr è un intervento straordinario, come un tempo faceva l’Italia con la Cassa per il Mezzogiorno e ora fa l’Ue per i vari Paesi europei e soprattutto per l’Italia e per il Sud”. E’ quanto osservato ieri da Adriano Giannola, presidente di Svimez, intervenendo alla Lanterna di Roma al meeting ‘Sud e futuri: Mezzogiorno strategico’ organizzato dalla fondazione Magna Grecia e giunto alla sua quarta edizione. “I temi legati alla ‘questione meridionale’ non solo non si sono risolti ma dall’inizio del nuovo millennio, potremmo anzi indicare dal 1998 in poi, si sono persino acuiti, tornando ai livelli degli anni Cinquanta e Sessanta – accusa Giannola – Ma se l’Italia si vuole salvare, si potrà salvare soltanto tutta insieme, rivitalizzando la linfa meridionale e la vocazione mediterranea”. Per Giannola, “i meccanismi per l’attivazione di fondi e interventi come l’Art Bonus o i contributi delle fondazioni bancarie, che sono le due linee di finanziamento extrastatale maggiori, non fanno altro che alimentare il divario fra Nord e Sud, visto che le banche del Mezzogiorno non esistono più e che i privati hanno ritorni maggiori a finanziare un teatro lirico o una mostra d’arte in una città settentrionale piuttosto che meridionale”.