Milano – Un esempio di come l’Ue sia Unione soprattutto tra le banche viene dallo stallo in cui versa la politica comune sui prezzi del gas e sulla speditezza con cui invece tutte le Banche centrali dei paesi membri procedono all’unisono aumentando il costo del denaro. A dividere Nord e Sud del vecchio continente stavolta non sono i conti ma la crisi energetica: da una parte ci sono i Paesi meridionali, guidata da Italia, Spagna e Grecia, che premono per riforme più incisive (da mesi ormai) che comprendono un price cap al gas e una riforma del mercato dell’elettricità; dall’altra ci sono i nordici, guidati ovviamente da Germania e Paesi Bassi, che invece vorrebbero intervenire senza stravolgere lo status quo. La prima suddivisione geografica è emersa con la proposta di un tetto al prezzo del gas generalizzato avanzata in una lettera siglata da ben quindici Paesi: Belgio, Bulgaria, Croazia, Francia, Grecia, Italia, Lettonia, Lituania, Malta, Polonia, Portogallo, Romania, Slovacchia, Slovenia e Spagna.
Contrari invece: Germania, Paesi Bassi, Austria, Lussemburgo, Ungheria. In un secondo passaggio, frutto dei negoziati, è emersa una nuova proposta di un price cap dinamico avanzata questa volta da Italia, Polonia, Belgio e Grecia. Una proposta che trova anche il sostegno della Spagna. In sostanza propongono un price cap con un valore centrale (che tenga conto di altri indici quali petrolio, carbone e/o prezzi del gas in Nordamerica e Asia) e che possa avere delle fluttuazioni (ad esempio del 5%) dettate dalle variazioni di domanda e offerta. La risposta è arrivata con un altro documento, firmato da Germania e Olanda, dove il price cap sul gas viene considerato solo per il gas russo da gasdotto. Preferiscono i negoziati diretti con i fornitori, in primis con la Norvegia. Che ovviamente è contraria al price cap. Nel frattempo Vladimir Putin insiste per rendere la Turchia l’hub energetico attraverso cui smistare il gas diretto verso l’Europa.
La proposta del presidente russo è arrivata come possibile alternativa alle rotte attuali, non a caso dopo i problemi riportati dai gasdotti del Baltico e consentirebbe a Mosca di mantenere il proprio potere nei confronti dell’Europa, garantendo allo stesso tempo ad Erdogan (e all’Europa) il gas di cui hanno bisogno. Il piano prevede in pratica di svuotare il Nord Stream e continuare a rifornire l’Europa attraverso la Turchia, che storicamente non ha risorse proprie, ma può contare su una posizione strategica. In questo caso, oltre alla posizione, molto ha contato il rapporto tra Erdogan e Putin e il dialogo i corso tra i due, che si sono incontrati per 4 volte negli ultimi 4 mesi. Rimangono tuttavia da chiarificare alcuni punti. La Russia venderebbe il gas alla Turchia che a sua volta lo venderebbe all’Europa? Sembrerebbe di si, considerando che il leader russo ha dichiarato che il progetto che ha in mente costituisce “una piattaforma non solo per i rifornimenti, ma anche per determinare i prezzi, senza mettere in mezzo la politica, ma solo seguendo il mercato”.
Un punto essenziale, ma soprattutto una mossa di Putin per rispedire la palla dall’altro lato del campo e aspettare le mosse di un’Europa che si trova schiacciata tra la volontà di sanzionare la Russia e la possibilità concreta di rimanere senza riscaldamento. Il 40% dell’import europeo è infatti coperto da gas russo, ma Putin ha stretto i rubinetti con l’inizio della guerra in Ucraina come risposta alle sanzioni che Europa e Paesi occidentali hanno applicato nei confronti della Russia. Erdogan sull’argomento non si è ancora espresso, ma da fonti russe (Ria novosti) filtra che i due leader hanno ordinato un rapporto con tanto di studio di fattibilità di un progetto che stravolgerebbe le rotte del gas e farebbe aumentare il peso internazionale della Turchia sul piano politico e strategico. Siamo comunque dinanzi all’ultima, in ordine di tempo, mossa di Putin, che attraverso il gas tiene l’Europa in scacco anche se stavolta gli è essenziale la collaborazione del leader turco, che è anche leader Nato e che si è fatto strada dall’inizio della guerra mettendo a segno le importanti trattative per il corridoio del grano e per lo scambio di ostaggi tra i due Paesi.
Per quanto riguarda l’altro grande tema del momento, strettamente legato all’energia – i tassi di interesse delle banche centrali – sono tutti d’accordo. L’utima avvitata è venuta dal Consiglio monetario della Banca centrale ungherese, che venerdì scorso ha effettuato un intervento inatteso sui tassi, rafforzando la stretta monetaria in corso e la valuta. Dopo avere esaminato gli sviluppi economici e finanziari, ha deciso di aumentare il limite superiore del corridoio dei tassi di interesse, lasciando invariato il tasso di base, si legge in una nota. Di conseguenza, il Consiglio ha aumentato l’overnight collateralised lending rate al 25%, un aumento di 950 punti base dal 15,5% a cui era in precedenza. Il tasso di interesse chiave rimane al 13%, come stabilito nell’ultimo meeting del 28 settembre.
“Nell’attuale periodo turbolento dei mercati finanziari, un compito chiave per la MNB è garantire la stabilità del mercato, oltre a raggiungere il suo obiettivo primario di stabilità dei prezzi – si legge in una nota – La MNB è pronta a intervenire utilizzando tutti gli strumenti del suo kit di strumenti di politica monetaria per garantirli. Le sfide esistenti giustificano l’uso di strumenti mirati e temporanei”. I cambiamenti “sono volti a garantire l’attuazione rapida e flessibile di condizioni monetarie più restrittive nei sottomercati considerati chiave in termini di trasmissione monetaria, ovvero sia il mercato interbancario che il mercato degli swap”. Inoltre, la Banca si impegna a “soddisfare direttamente nei prossimi mesi le maggiori esigenze di liquidità in valuta estera derivanti dalla copertura dell’import di energia”.
“Gli operatori di mercato devono avere fiducia nella credibilità della banca centrale. Faremo tutto il necessario per riportare l’inflazione al nostro obiettivo del 2% nel medio termine” ha ripeturo nel weekend il vicepresidente della BCE, Luis de Guindos. L’economista ha riconosciuto che l’aumento della domanda può essere contenuto attraverso decisioni di normalizzazione della politica monetaria, mentre la politica monetaria non ha alcuna influenza sui prezzi dell’energia. Tuttavia, “è molto importante evitare effetti di secondo impatto e impedire che l’inflazione venga trasferita sui salari, il che spingerebbe l’inflazione verso l’alto. Per evitare ciò, le aspettative di inflazione devono rimanere ancorate”.
Attualmente il tasso di interesse sui depositi presso la BCE è dello 0,75%, ma non c’è consensus su dove debba arrivare, ovvero quale sia il tasso terminale per ancorare le aspettative di inflazione. Anche de Guindos è di questa opinione: “È molto difficile da dire. Dipendiamo dai dati che riceviamo. C’è un livello di incertezza molto alto. Non sappiamo come si svilupperà la guerra e quale impatto avrà sui prezzi dell’energia. Tutti questi fattori rendono molto difficile determinare il livello del tasso terminale”. Mentre la BCE è impegnata in un percorso di stretta monetaria per contenere l’inflazione, i governi dell’eurozona stanno mettendo in campo misure per alleviare, a imprese e cittadini, l’impatto dell’aumento dei costi energetici. Alcuni esperti temono che questi interventi di politica fiscale possano intaccare l’azione della Banca centrale.
“La politica fiscale deve supportare il processo di normalizzazione della politica monetaria condotto dalla BCE”, ha ricordato de Guindos. “Poiché siamo nel processo di normalizzazione della nostra politica monetaria, la politica fiscale deve svolgere un ruolo diverso da quello svolto durante la pandemia – ha detto il vicepresidente della BCE – Nel contesto attuale, la politica fiscale deve essere più selettiva e mirata a sostenere i gruppi più vulnerabili della società. Se i paesi inizieranno a mettere in atto misure indiscriminate su tutta la linea, la missione della politica monetaria diventerà più impegnativa e potremmo non essere in grado di raggiungere gli obiettivi finali di ridurre la dipendenza dall’energia russa e sostenere la transizione verde”.
A sostenere la stretta di Bce – e naturalmente di Fed – c’è pure il Fondo monetario nazionale. Il contesto economico globale si conferma “difficile”, dopo esser stato “colpito da uno shock dopo l’altro” e le chance di recessione in molte economie stanno crescendo, anche se la crescita resta positiva, il crollo dei redditi reali la farà percepire come una recessione da parte di molte famiglie. Lo ha confermato la Direttrice del FMI, Kristalina Georgieva, in occasione delle assemblee autunnali della Banca Mondiale. Anche i rischi per la stabilità finanziaria stanno aumentando e l’FMI stima una probabilità “non trascurabile” del 25% che l’economia globale possa finire in recessione nel 2023 ed una possibilità su quattro che la crescita possa calare al minimo storico del 2%.
“Ma abbiamo ancora nelle nostre mani strumenti per navigare. E’ un sentiero stretto ma ci sta. E’ come scalare una montagna, se ci teniamo assieme possiamo farcela”, ha affermato Georgieva. Parlando delle politiche delle banche centrali e della lotta all’inflazione, la numero uno del FMI ha ribadito “quando la politica monetaria tira il freno la politica di bilancio non deve spingere sull’acceleratore”, anche se i rialzi dei tassi “hanno un prezzo sulla crescita. Non stringere abbastanza per calmierare l’inflazione – ha avvertito – significherebbe tassi alti più a lungo e questo creerebbe più danni per crescita il lavoro. Servono misure determinate delle banche centrali” e, contemporaneamente, “politiche di bilancio responsabili, per aiutare imprese e famiglie più vulnerabili. L’inflazione è ostinata ma le banche centrali possono essere più ostinate dell’inflazione”, ha concluso la direttrice, spezzando una lancia a favore della Fed che sta guidando la lotta alla crescita esponenziale dei prezzi.