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martedì 6 Giugno 2023

Energia: nucleare, petrolio e in coda le rinnovabili

Milano – L’Arabia Saudita sta lavorando per avviare in futuro la produzione di uranio per lo sviluppo del programma nucleare nazionale e per l’eventuale esportazione. In questi giorni il ministro dell’Energia saudita, Abdulaziz bin Salman, ha affermato che le recenti scoperte hanno mostrato un portafoglio diversificato di uranio nel regno, sottolineando che ci sono vari siti geologici distribuiti sul territorio saudita ricchi di uranio, tra cui Jabal Saeed e Medina. Nel 2018, l’Arabia Saudita, ad oggi il più grande esportatore di petrolio al mondo, ha annunciato la sua intenzione di costruire 16 reattori nucleari per un investimento complessivo di 80 miliardi di dollari con l’obiettivo di ridurre la sua dipendenza dal settore degli idrocarburi. Il Paese, che ha iniziato sviluppando “due grandi reattori”, vuole “sfruttare le (sue) risorse di uranio”, ha dichiarato il ministro dell’Energia saudita. “Il regno intende utilizzare le sue risorse nazionali di uranio, anche in progetti congiunti con i suoi partner, in conformità con gli obblighi internazionali e le regole di trasparenza, sull’intero ciclo produttivo”. Ciò include “la produzione di yellowcake (concentrato di uranio solido) e uranio debolmente arricchito”, ha affermato Abdulaziz bin Salman.

L’uranio arricchito a basso livello (dal 3,5 al 5 per cento) funge da combustibile per le centrali nucleari destinate alla produzione di energia elettrica. L’uranio arricchito al 90 per cento è invece impiegato per la produzione di armi nucleari. Nel 2018 le autorità di Riad si sono impegnate a “limitare tutte le attività atomiche a fini pacifici”. Come altri Paesi della regione, l’Arabia Saudita è preoccupata per il programma nucleare dell’Iran, suo grande rivale regionale, che ha sempre negato di voler dotarsi di armi atomiche. L’annuncio fatto dal ministro dell’Energia saudita giunge mentre i tentativi di rilanciare l’accordo nucleare iraniano sono ormai di fatto a un punto morto, con Teheran che sta aumentando progressivamente i livelli di arricchimento dell’uranio fino ad almeno al 60 per cento, secondo stime dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea). In base all’accordo firmato nel luglio 2015 a Vienna dall’Iran e dei Paesi del gruppo 5+1 (Cina, Francia, Regno Unito, Russia, Stati Uniti e Germania), a Teheran era consentito di arricchire l’uranio non oltre il 3,67 per cento. Tuttavia, dopo il ritiro unilaterale degli Stati Uniti dall’accordo nel maggio del 2018 e il ripristino delle sanzioni economica, l’Iran ha progressivamente ridotto i suoi impegni.

Anche la Corea del Sud intende potenziare ulteriormente il proprio comparto nucleare civile a svantaggio dei piani per lo sfruttamento delle energie rinnovabili, nel tentativo di adattare il mix energetico nazionale agli impegni internazionali di riduzione delle emissioni di anidride carbonica. Secondo la decima edizione del Piano di base per la fornitura di energia elettrica a lungo termine, pubblicata dal governo oggi, 12 gennaio, il nucleare dovrebbe arrivare a coprire quasi un terzo della capacità nazionale di generazione energetica entro il 2030, rispetto al 24 per cento previsto da precedenti bozze del documento. Il contributo delle rinnovabili, invece, si attesterà al 21,6 per cento, una percentuale significativamente inferiore a quella del 30,2 per cento prevista in precedenza.

Ma la crisi energetica sta riportando in auge nel mondo anche i combustibili fossili. L’istituto bancario britannico Hsbc ha concesso un prestito multimilionario alla compagnia energetica tedesca Rwe, che intende espandere la miniera di carbone a cielo aperto Garzweiler II. Il prestito, da 340 milioni di dollari (circa 316 milioni di euro), arriva nonostante l’impegno della banca a “cercare di ritirarsi” dal finanziamento del combustibile fossile. Secondo un’indagine del Bureau of Investigative Journalism, ripresa dal quotidiano “The Times”, prima di autorizzare il prestito a Rwe, i banchieri di Hsbc avevano espresso preoccupazioni per l’espansione della miniera, che dovrebbe produrre circa 190 milioni di tonnellate di lignite, il più inquinante di tutti i tipi di carbone.

La società statunitense ConocoPhillips, che ha abbandonato il Venezuela dopo la nazionalizzazione dell’industria petrolifera statale nel 2007, è impegnata invece in trattative con le autorità di Caracas per iniziare a vendere il greggio prodotto del Paese latinoamericano negli Stati Uniti, così da rientrare di un credito da 10 miliardi di dollari contratto con Caracas. La società texana sta negoziando un accordo con la compagnia petrolifera Pdvsa per trasportare e vendere negli Stati Uniti il greggio venezuelano, per conto di Caracas. Secondo le fonti, ConocoPhillips ha ottenuto da Tesoro Usa il permesso di negoziare con Pdvsa una proposta per rientrare dei soldi persi nel Paese nel corso degli anni: una perdita acuita ulteriormente dopo l’imposizione di sanzioni nei confronti dell’industria petrolifera venezuelana a partire dal 2019.

Nel frattempo la Camera dei rappresentanti degli Stati Uniti ha approvato un disegno di legge che impedisce la vendita alla Cina di petrolio proveniente dalle riserve strategiche nazionali. Non è chiaro quale sarà il destino del disegno di legge al Senato, controllato dai democratici. L’iniziativa legislativa è stata promossa dai repubblicani dopo che lo scorso anno è emerso come una parte delle riserve strategiche di petrolio liberate dall’amministrazione del presidente Joe Biden per stabilizzare i prezzi del greggio a livello globale sia finita alla Cina. Secondo il democratico Frank Pallone, membro della commissione Energia della Camera, in realtà solo il 2 per cento del petrolio esportato dagli Stati Uniti alla Cina lo scorso anno sarebbe stato prelevato dalle riserve strategiche. “Se i repubblicani fossero seri su questa questione, avrebbero promosso un disegno di legge che vieti in toto l’export di greggio alla Cina”, ha affermato il rappresentante del New Jersey.

Per fortuna, ce n’è anche per le fonti rinnovabili. Il gruppo per l’energia tedesco Siemens Energy ha ottenuto un ordine per la costruzione di due stazioni di conversione per il collegamento di parchi eolici nel Mare del Nord alla rete elettrica della Germania. Dal valore complessivo di quattro miliardi di euro, il contratto è stato assegnato dall’operatore dell’infrastruttura Amprion a un consorzio formato da Siemens Energy e dalla società spagnola Dragados Offshore. L’azienda tedesca otterrà circa la metà del totale. “È il più grande ordine di connessione alla rete in mare che la società abbia ricevuto fino ad oggi”, ha comunicato Siemens Energy. Con le stazioni di conversione, sarà possibile trasportare a terra fino a quattro gigawatt di elettricità verde da diversi parchi eolici nelle acque tedesche del Mare del Nord.

Tale quantità potrebbe coprire il fabbisogno di energia elettrica di circa quattro milioni di persone. Le stazioni di conversione mutano l’elettricità generata nei parchi eolici in corrente continua in mare e di nuovo in corrente alternata a terra. Ciò consente una trasmissione con perdite di gran lunga inferiori. Siemens Energy fornirà due piattaforme di conversione in mare e due stazioni associate a terra. I sistemi di connessione trasmetteranno l’elettricità a Wehrendorf in Bassa Sassonia e Westerkappeln in Nordreno-Vestfalia, rispettivamente dal 2029 e dal 2030. Dragados Offshore sarà responsabile della costruzione e dell’installazione delle piattaforme in mare, che verranno costruite a Cadice.

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