Milano – L’inflazione dell’Eurozona, più esposta agli shock energetici causa della guerra in Ucraina, resterà più alta che negli Stati Uniti nel breve termine, nonostante un quadro economico più debole, ma nell’orizzonte a due anni le previsioni sono per un’inflazione “leggermente più alta” negli USA che nell’area euro, con la pressione sui prezzi al consumo che resterà più alta e persistente oltreoceano. Lo si legge nell’ultimo Bollettino economico della BCE. Le aspettative di inflazione a due anni per gli Stati Uniti si attestano al 2,6% per il PCE e al 2,8% per l’IPC, mentre le aspettative di inflazione a due anni per lo HICP dell’area dell’euro si attestano al 2,4%. “Questi risultati suggeriscono che i livelli di inflazione al di sopra dell’obiettivo della banca centrale sono considerati un po’ più persistenti negli Stati Uniti – si legge nello studio – Ciò potrebbe riflettere la più forte componente interna dell’inflazione negli Stati Uniti, unitamente a aspettative complessivamente più ottimistiche riguardo al dinamismo del mercato del lavoro statunitense”.
Analizzando l’andamento dei prezzi al consumo negli ultimi due anni, i ricercatori della BCE evidenziano che un aumento “precedente e più forte” era stato registrato negli Stati Uniti, ma l’inflazione complessiva è stata più elevata nell’area euro dal luglio 2022. A novembre l’inflazione nell’indice armonizzato dei prezzi al consumo (HICP) dell’area euro si è attestata al 10,1%, dopo il 10,6% di ottobre, mentre l’inflazione dell’indice dei prezzi al consumo (CPI) statunitense ha raggiunto il picco del 9,1% in giugno, per poi rallentare leggermente, attestandosi al 7,1% in novembre. Inoltre, le componenti dell’inflazione sono diverse. A novembre l’inflazione energetica da sola rappresentava il 38% dell’inflazione complessiva nell’area euro, ma solo il 14% negli Stati Uniti. Insieme, l’inflazione energetica e quella alimentare costituiscono circa i due terzi dell’inflazione complessiva nell’area euro, ma solo circa un terzo dell’inflazione complessiva negli Stati Uniti.
Lo studio sottolinea anche che una più forte ripresa trainata dai consumi negli Stati Uniti è stata un fattore chiave delle differenze tra gli andamenti sottostanti dell’inflazione nelle due economie. “Il PIL reale negli Stati Uniti è tornato al livello pre-pandemia di circa due trimestri in anticipo rispetto al PIL reale dell’area dell’euro, principalmente a seguito di una ripresa più sostenuta dei consumi privati e degli investimenti statunitensi” si legge. In particolare, i consumi privati di beni e servizi sono tornati solo di recente al livello registrato nel quarto trimestre del 2019 nell’area euro, mentre avevano già superato il livello pre-pandemia negli Stati Uniti all’inizio del 2021. Secondo la BCE, le discrepanze nella crescita dei consumi tra le due economie possono essere in gran parte spiegate da due fattori: il disegno della politica fiscale e le dinamiche delle ragioni di scambio.
In primo luogo, una ripresa molto rapida e forte del consumo di beni negli Stati Uniti è stata stimolata da un sostegno al reddito familiare generale e relativamente ampio durante la pandemia, compresi stimoli e maggiori sussidi di disoccupazione. Nell’area euro, il sostegno del governo è stato più mirato alle persone più esposte alla pandemia, attraverso la compensazione delle perdite di reddito o attraverso programmi di mantenimento del posto di lavoro. In secondo luogo, l’aumento dei prezzi dell’energia dalla primavera del 2021, significativamente aggravato un anno dopo dalla guerra in Ucraina, ha provocato uno shock nelle ragioni di scambio che ha colpito l’area euro molto più duramente degli Stati Uniti, poiché l’Eurozona era fortemente dipendente dalle importazioni di gas dalla Russia.
Anche la banca d’affari statunitense Goldman Sachs, in effetti, ha sensibilmente migliorato la propria stima sulla crescita dell’Eurozona nel 2023, prevedendo ora una crescita dello 0,6% per l’anno in corso, significativamente al di sopra della previsione precedente e delle aspettative di consenso (entrambe a -0,1%). “Manteniamo la nostra opinione che la crescita dell’area euro sarà debole nei mesi invernali a causa della crisi energetica, ma non ci aspettiamo più una recessione tecnica – si legge nella ricerca – Ciò riflette uno slancio di crescita più resiliente alla fine dello scorso anno, prezzi del gas naturale nettamente inferiori e una riapertura anticipata della Cina”.
Guardando ai singoli Stati membri, Goldman Sachs prevede una crescita più debole in Germania e Italia (che dipendono maggiormente dall’attività industriale ad alta intensità energetica) rispetto a Francia e Spagna (che hanno fonti energetiche più diversificate e sono relativamente più ad alta intensità di servizi). Secondo la banca d’affari, i mercati del lavoro sono rimasti resilienti e ci sarà solo un piccolo aumento del tasso di disoccupazione a livello di area euro durante i mesi invernali. Dati i fermi indicatori di crescita salariale, i recenti accordi sindacali e gli effetti di recupero dall’elevata inflazione complessiva, viene stimato che la crescita salariale acceleri notevolmente dal 3,6% nel terzo trimestre a quasi il 5% nel primo trimestre.
L’inflazione ha superato il picco e, dopo il netto calo dei prezzi dell’energia all’ingrosso, Goldman Sachs prevede che l’inflazione complessiva nell’area euro finisca l’anno intorno al 3,25% (rispetto al 4,5% precedente).” Prevediamo anche un rallentamento dell’inflazione core a causa del calo dei prezzi dei beni, ma vediamo una continua pressione al rialzo sull’inflazione dei servizi a causa dell’aumento del costo del lavoro”, viene sottolineato. Data l’attività economica più resiliente, l’inflazione di fondo “sticky” e i commenti hawkish, la previsione è che la BCE “stringerà significativamente di più nei prossimi mesi”. Aumenti di 50 punti base vengono ritenuti molto probabili sia a febbraio che a marzo, prima di rallentare a 25 punti base per un tasso terminale del 3,25% a maggio. Viene ritenuto improbabile che la BCE tagli i tassi subito dopo e non vengono previsti allentamenti fino al quarto trimestre del 2024.
Tra l’altro, un costo del credito più elevato, provocato dal restringimento della politica monetaria in tutto il mondo, renderà più costoso il finanziamento delle energie rinnovabili e delle tecnologie green. Tuttavia “sarebbe fuorviante utilizzare tassi di interesse più elevati come capro espiatorio per un ulteriore ritardo nella transizione verde” ha affermato recentemente Isabel Schnabel, che fa parte dell’Executive Board della Banca centrale europea. “In primo luogo, il ripristino tempestivo della stabilità dei prezzi fornisce le condizioni in base alle quali la transizione verde può prosperare in modo sostenibile – ha spiegato – In secondo luogo, il più grande ostacolo a una rapida decarbonizzazione rimane la mancanza di progressi da parte dei governi nell’attuazione dei precedenti impegni sul clima”.
In tutto questo, Francoforte ha come obiettivo a lungo termine “garantire che tutte le nostre azioni di politica monetaria siano in linea con gli obiettivi dell’accordo di Parigi”. Ciò significa rendere più green le partecipazioni obbligazionarie, comprese le obbligazioni del settore pubblico, nonché le operazioni di prestito e il quadro delle garanzie, ha detto Schnabel. L’economista tedesca ha riconosciuto che i costi iniziali relativamente elevati sostenuti in nelle spese ad alta intensità di capitale per le energie rinnovabili sono particolarmente suscettibili alle variazioni del costo del credito. Poiché le centrali elettriche a combustibili fossili hanno costi iniziali relativamente bassi, un aumento persistente del costo del capitale potrebbe scoraggiare gli sforzi per decarbonizzare rapidamente le nostre economie. “In parole povere, le energie rinnovabili sono più competitive quando i tassi di interesse sono bassi”, ha detto.
Ciò nonostante, secondo Schnabel, “il mancato arresto dell’inflazione elevata in modo tempestivo metterebbe a repentaglio la transizione verde in modo più radicale” e una politica monetaria restrittiva oggi andrà a vantaggio della società nel medio-lungo periodo ripristinando la stabilità dei prezzi. In questo contesto, “la politica fiscale deve rimanere al posto di guida quando si tratta di combattere il cambiamento climatico. Purtroppo, molti governi non sono riusciti a sfruttare gli ultimi anni di bassi tassi di interesse per accelerare gli investimenti in vettori energetici più ecologici e sostenibili a un ritmo commisurato alle sfide che stiamo affrontando”. Dovrebbero essere mantenuti e ampliati, ove possibile, “regimi di sostegno fattibili per le energie rinnovabili e le tecnologie verdi, come garanzie first-loss, abbuoni di interessi e strumenti di finanziamento sponsorizzati dal governo”.