Milano – Con la sospensione delle attività di 145 aziende dell’indotto, Acciaierie d’Italia sta esercitando “una forma di pressione molto brutale nei confronti dell’esecutivo italiano”. Ad affermarlo, in una conversazione con “Agenzia Nova”, è una fonte attualmente molto vicina al dossier, chiedendo di mantenere l’anonimato. L’azienda, partecipata al 60 per cento dal gruppo franco-indiano ArcelorMittal ed al 40 per cento dalla controllata pubblica Invitalia, è in profonda crisi finanziaria e potrebbe rischiare la chiusura, nonostante il previsto passaggio sotto controllo pubblico, che è stato tuttavia rinviato al maggio 2024. Per cercare di accelerare il risanamento di un’azienda – la ex Ilva – d’importanza strategica per il Paese, lo scorso agosto il governo Draghi aveva stanziato un miliardo nell’ambito del decreto Aiuti bis: una cifra sufficiente a prendere il controllo della società, oppure a ridare fiato alle sue casse, ma con il rischio di bruciare altro denaro in una gestione inefficiente.
Secondo un calcolo dei sindacati, saranno circa 2 mila i lavoratori delle 145 imprese dell’indotto che saranno colpiti dalla decisione di Acciaierie d’Italia (AdI). Non stupisce, quindi, l’immediata reazione dell’esecutivo che, tramite il ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso, ha ribattuto: “Il governo non può essere sotto scacco, non siamo ricattabili da parte di alcuno. Questo vale per chiunque si confronti con l’Italia. Mi aspetto decisioni a breve dell’azienda che possano riportare nei giusti binari il confronto tra l’azienda, l’azionista, il pubblico e certamente il governo”.
Per AdI, l’urgenza d’inviare la lettera alle società dell’indotto, secondo una delle fonti di “Agenzia Nova”, era motivata anche dalla necessità di ripagare i debiti in scadenza contratti con i fornitori. Una situazione che ha spinto Confindustria Puglia e Taranto, lo scorso settembre, a chiedere di assicurare risorse a Acciaierie d’Italia, affinché saldi i crediti verso le imprese dell’indotto, stimati in oltre 100 milioni di euro. A queste risorse, poi, bisogna aggiungere come minimo i debiti contratti con Eni. “Il fatto che la sola Eni vanti un credito di 300 milioni di euro per le bollette non pagate”, afferma la fonte vicina al dossier, “fa pensare che la situazione di liquidità della società sia oramai allo stremo”. A fronte di questa situazione, lo Stato dovrebbe “fare molta attenzione a dove mette i soldi”, anche perché “questa società è per molti versi, dal punto di vista industriale, una scatola vuota”, non avendo “veri e propri assetti industriali”. La strategia del governo dovrebbe essere quindi quella di “andare a cambiare la governance e l’assetto societario”, rivolgendosi a “soggetti affidabili che siano in grado di rilanciare” l’acciaieria anche tramite gli investimenti e le ristrutturazioni necessarie.
In sostanza, secondo la stessa fonte, “va trovato un modo per riprendere il controllo della società” da parte dello Stato, ma senza disperdere le risorse dei contribuenti. “Se con le risorse” chieste da Acciaierie d’Italia “non si giungesse a un controllo della società e non si riuscisse neppure a coprire i debiti commerciali, non si vede quale sia l’utilità” di una simile operazione per i cittadini italiani e per lo Stato. Più in generale, il dossier dell’ex Ilva s’intreccia con una complessa partita geopolitica tra Italia e Francia, aggiungendosi alle altre partite industriali e finanziarie tra i due Paesi: dalla rete unica di telecomunicazioni alla compagnia Ita Airways, dove Air France-Klm fa parte della cordata capeggiata dal fondo Certares. Secondo una delle fonti consultate da “Nova“, infatti, l’errore di base è stato “la cessione della società ad ArcelorMittal”, che controlla anche uno stabilimento a Dunkerque in Francia, un concorrente dell’ex Ilva “con una forte presenza in Europa, e che quindi di per sé non aveva interesse a sviluppare l’impianto”.